Poesie di Patrizio Del Nero

Poesie

PRESENTAZIONE

Per la verità, queste poche righe che seguono non so se chiamarle presentazione e, soprattutto, non so se chiamare poesie queste sensazioni e questi ricordi, espressi su fogli di carta in alcuni momenti tra il 1992 e il 1996. Attraverso questi scritti in forma di poesia ho voluto esprimere l’amore per le mie montagne, la Valle del Bitto di Albaredo, che ha segnato gli anni dell’infanzia, della gioventù e dell’esperienza di Amministratore consentendomi di ripagare nelle cose fatte la gratitudine dei miei compaesani. Nelle mie poesie, chiamiamole così, ho voluto riportare alla luce i sentimenti profondi che raccontano anche la vita e i profumi di queste montagne. E’ la storia difficile del vivere le Alpi, ma è la storia bella di una comunità di uomini e donne che le hanno abitate e che le abitano, in un’autenticità che mi ha sempre emozionato. Rileggendo questi appunti medito e rifletto e proprio per questo accompagno alcuni brani con delle note per far meglio comprendere la situazione, ma anche con lo scopo di manifestare qualche riflessione. “Pensa che sempre a cavare il fondamento si dura maggiore fatica: fatto il fondamento, agevolmente si fa l’edificio”…. Come una casa è solida e duratura quando posa su solide fondamenta, così la personalità di ogni uomo deve avere un “fondamento”, che gli consenta di orientarsi nella vita e di agire da uomo. Sono le parole di S. Caterina da Siena in una delle tante lettere scritte nella seconda metà del 1300 con il commento del prof. Gianfranco Morra. Quale miglior testimonianza potevo trovare per questa mia raccolta?

Albaredo per S. Marco. dicembre 1999
Patrizio Del Nero

NEVE

Impalpabile senza scioglierti,
leggera con la luna.

Gioiosa per il bimbo,
bianca.

La neve.

GRICCI

Nebbie autunnali
s’increspano nei colori del bosco ceduo.
Una foglia cade nel silenzio spaziale.
Una goccia lascia l’albero
sul quale era aggrappata.
S’ode d’un tratto lo sgranocchiare
di uno scoiattolo.
Intanto il cielo si è arricciato.

PROFUMI MONTANI

Il bosco ceduo delle Orobie,
lo splendore dei colori, forti e discreti,
spiccano i rododendri
sbirciano le genzianelle.

Respiro aria e profumo
il sapore delle Valli
dei suoi prodotti
della terra e degli abitanti.

Nessun barattolo
grande e ancora più grande
potrà contenere ciò che sento e mi circonda.
Profumi.

SILENZIO

Una cocci nella posa sul trifoglio
cresciuto ai lati del sentiero.

Le nuvole sospinte dal vento
attraversano il cielo di inizio estate.

Fa caldo,
tutto tace.

Non m’accorgo,
è il silenzio.

TEMPORALE

Improvviso,
il sole chiude la porta alle sue spalle,
ci sentiamo più soli.

E’ quasi buio,
la Valle si rischiara,
la profondità del silenzio.

Un attimo,
l’urlo del cielo ci scuote,
un cane abbaia.

La terra inizia a bagnarsi,
il silenzio è rotto,
luci metalliche e psichedeliche.

Il vecchio trombone
ritma la svogliata cantilena,
il rumore della pioggia dentro il vecchio solaio.

L’acqua si raccoglie in una pozzanghera,
ansimante il trombone smette di suonare,
appare l’arcobaleno.

TORRENTE

Perenne,
scendi cantando urta montagna
spumeggi e ti illumini
con lo spegnersi delle stelle.

Dai vita alla terra
risollevi l’uomo dalle fatiche,
il rododendro si rinfresca
alla prima calura dell’estate.

Attraversi la terra e conosci le genti,
gli animali, il mondo,
ti lasci specchiare
dalla fanciulla nel sogno dell’amore.

Non ti fermi mai,
chissà da dove inizia il tuo cammino,
vai oltre la mia vista,
ciò che della terra conosco.

Ascolti ovunque
e continui a scivolare
tra i sassi e la sabbia,
ti lasci accarezzare, ma non ti fermi.

Chi sono i tuoi amici
se non ti fermi mai?
Forse tutto e tutti
sono i tuoi amici?

Forse siamo noi che non ti siamo più amici?
Senza dite come potremmo gustare
le bellezze della vita?
Chissà se ti fermerai un giorno a sorriderci.

LUNA

Segni il volgere delle stagioni
il cambiamento dei tempi,
il ritmo della natura,
degli uomini.
Bianca,
illumini la buia Valle,
disegni il profilo dei monti,
le ombre del bacio degli innamorati.
Affascinante,
cammini accarezzando il blu del cielo,
come una giovane amata lasci dietro di te
e nel cuore il ricordo del primo incontro.

Incantevole,
appari e poi scompari
dietro una soffice nuvola,
alle prime luci dell’autora.
Mutevole, un poco per volta
a ponente e a levante,
col tuo candore dai luce
alla Via del passante.
Senza di te
come sarebbe mai la terra?

INCANTO DELLA NATURA

Osservo il paesaggio
che si sta glia all’orizzonte,
al tramonto, nel candore della sera.

L’azzurro cielo disegna le cime imbiancate,
immacolata neve
che tutto rende uguale.

Il silenzio è il solo ambiente,
il fischio leggero del vento
da tono e voce allo spettacolo.

E’ sera in fondo alla Valle
si vedono appena le luci della città,
una terra lontana,
l’incontro impossibile.

Nulla si ode
tutto tace,
immenso nel sonno perpetuo
che nessun bacio del principe non potrà mai destare.

Sono anch’io uomo di queste Alpi,
riesco ancora a suggestionarmi,
provo tenerezza per ogni cosa.

La mia Valle mi riconcilia,
con le fatiche della vita,
è notte e tutto ancora tace.

Il cielo blu si riempie,
lo splendore delle stelle
come fiocchi di neve
occhi di stupende creature.

Sogno,
incantato dal mistero della natura.

PAESAGGIO D’AUTUNNO

L’autunno si è vestito di mille colori,
gli alberi fremono per le sfilate,
gli uccelli canticchiano qua e là,
le marmotte ci hanno lasciato da tempo,
le formiche riposano nell’architettonico rifugio,
dopo le fatiche dell’estate.

Il silenzio prende il sopravvento,
s’odono ancora dei rumori,
un ramo secco aiutato dal vento
si stacca dall’albero che l’ha visto crescere,
i frutti color porpora della rosa canina
dondolano civettuoli come campanelle.

Il rigoglioso torrente
dove mi specchio d’estate
dove soddisfa la sete il capriolo
dove gracchia la rana,
sembra addormentato
coperto da un sottile strato di ghiaccio.

Il prato pascolo
che alimenta tante vite
che emana l’antico sapore del fieno,
veste dei mille colori,
saluta facendo capolino
nel suo nuovo abito invernale.

Cammino sui sentieri
che hanno accompagnato le mie passeggiate,
il cielo è azzurro
una nuvola velocemente lo attraversa,
il sole sfiora all’orizzonte le montagne,
una luce tenue filtra tra i vetri della baita dei pastori.

La serenità mi abbraccia, mi riconcilio con la natura,
dimentico i rumori dell’urbana quotidianità,
la frenesia di ogni giorno,
il vecchio stagno della mia gioventù
mi accoglie come un caro amico
si lascia passeggiare come quand’ero bambino.

Questa mia Valle,
queste mie montagne m’incantano,
sogno e con loro sorrido,
una lunga stagione sta per iniziare,
una nuova vita presto verrà.

LA PERGOLA

La vecchia stalla con il fienile,
bella appare alla vista del passante,
il raggio di sole del mattino
riscalda la pergola.

Piantata in un tempo lontano
lascia affiorare un passato di tanti ricordi,
il vecchio con due bastoni
scandisce il passare degli anni.

Un tronco che sale
sorregge l’espandersi delle foglie
ad ogni primavera.

Un frutto d’autunno
sempre troppo acerbo,
anche il sole d’estate
si sforza per la maturazione.

I grappoli neri dell’uva
sembrano i ricci di una ragazza del Botticelli,
sei troppo alta per raccoglierti,
resisti alla voglia del giovine.

Ti alzi e ti aggrappi
in cerca di protezione,
alla parete sopra la scalinata.

Sei famosa,
raccontata e rispettata,
sei ammirata.

La pergola che richiama il viandante
e non si lascia accarezzare.

(nota a: la pergola)

La pergola a cui dedico questa poesia ancor oggi si può ammirare alla stalla della “mista” appena dopo la chiesa di Albaredo per andare al cimitero, Sì dice che tu piantata da mio zio, morto nella seconda guerra mondiale, già negli anni quaranta.
La vite a quota 900 metri sul mare è un po’ un’ impresa perché possa dare i suoi frutti. Tuttavia, per fine ottobre , qualche grappolo, asprissimo compariva sul tavolo. La pergola ha fatto storia ed è rispettata perché in fondo è come uno sconosciuto venuto da chissà quale paese lontano che ha saputo inserirsi in paese e diventare amico di tutti.

DEDICA PER DUE PINI

Forse troppo alti
tanto da sfidare il cielo,
profondi nella terra
con le grosse radici.

Rifugio del passerotto
bagnato dal temporale,
palcoscenico per il concerto
nell’attesa del sole del mattino.

Chini per il troppo carico di neve,
gentili con l’ombra del riposo
sotto il solleone.

Amichevoli nel riparo
della pioggia battente,
temuti quando fischia il vento.

Due vecchi bastoni, mal sopportati,
l’usignolo smarrito
non trova più il ramo
su cui aveva provato l’accoppiamento.

Il sole tramonta senza più ombre,
l’acquerello appeso a una parete
quanto resta della sfida con il cielo.

Entrando in Albaredo alla fine degli anni sessanta si potevano ammirare due abeti rossi, “pesc» nel dialetto locale. Il primo nel giardino di casa Ciapponi allo “volta”, il secondo nell’orto dello scomparso Oreste Mazzoni.
In molte cartoline e fotografie se ne può ammirare la maestosità e l’armonia con le case circostanti.
Oggi vi è un bel dipinto che li raffigura.
Ciò che ha accompagnato la nostra storia per molti decenni a volte diviene una cosa ingombrante di cui liberarsene. Sarebbe invece bello poter continuare a convivere poiché le nostre radici si incontrano con quelle degli alberi essendo nati negli stessi luoghi.

ABBANDONO E SPERANZA

La fatica di tempi antichi,
i segni dell’uomo,
tracce di una vita passata.

La solitudine,
una lacrima si disperde nel vuoto,
degrado.

Abbandono,
un raggio di luce segna la Via,
una donna incinta osserva e s’incammina.

E’ una bellissima giornata autunnale quando con un mio amico decisi di recarmi all’Alpe Garzino nella vallata di fronte ad Albaredo. Ancor oggi si può ammirare la perizia dell’uomo ne costruire i sentieri con i muretti a secco nel pieno rispetto dei luoghi. Su quel sentiero sono passato molte volte più di vent’anni fa con mio padre che con il mulo portava ai pastori le provviste della settimana. Ripercorrendolo anni dopo ho potuto notare i segni dell’abbandono della montagna, luoghi oramai dimenticati coperti di muschio, piante sradicate, luoghi che la natura anno dopo anno avvolge riprendendoseli dopo che l’uomo li aveva adeguati al proprio utilizzo. In questa forra del Bitto entra un raggio di sole, ne ho visto il segno della speranza di un nuovo interesse, nella riscoperta delle bellezze della montagna e di una nuova cura da parte dell’uomo. In fondo queste montagne vivono insieme agli uomini e non è ancora giunto il tempo della separazione.

passato
Là dove noi non siamo, si sta bene. Nel passato noi non ci siamo più, ed esso ci appare bellissimo.
(Cechov, scrittore russo)

presente
Non dire: “chi sa mai perché i tempi di prima erano migliori di questi?” Perché stolta è una tale
domanda.
(libro sapenziale dell’antico testamento)

futuro
Si volge ad attendere il futuro solo chi non sa vivere il presente.
(Seneca, filosofo latino)

IL VOLTO CON LE RUGHE

Seduto sopra il sasso osserva la formica
che trascina la pagliuzza,
un ramo secco affatica il cammino,
rivede se stesso e sposta il ramo,
la formica felice riprende a camminare.

Sorride senza muovere le labbra,
le rughe sulla fronte segnano gli anni
la propria esistenza,
ama la terra perché la comprende,
osserva l’orizzonte perché conosce i venti.

Gli occhi brillano di serenità,
il volto che racconta la storia
la vita di queste montagne,
vedo mia madre,
il passato e il presente.

Penso al futuro,
il volto che rivedo è pieno di speranza.

Davanti ad ogni baita o ad ogni cascina c’è sempre un sasso o una panca per sedersi, riposare e guardare all’orizzonte. Ogni volta che mi succedeva di vedere qualche anziano o anziana seduti, notavo in loro un’espressione di felicità, con uno sguardo capace di guardare più lontano della catena dei monti che si stagliavano all’orizzonte. Nella mia gioventù ho sempre pensato che queste persone fossero dei grandi saggi, dei depositari di conoscenze e di tante esperienze. Sono le persone che raccontano di storie vissute, di saggi proverbi, della vita tra questi monti.
Anche aiutando una piccola formica, tra le migliaia di formiche, con un gesto gentile, ho visto in loro il grande amore per tutto ciò che li circondava: le formiche che oggi vengono considerate qualcosa di fastidioso e da schiacciare.

TABERNACOLO

Lo vedo là in fondo,
misterioso,
nascosto dai paramenti di un prete
che celebra la sacra funzione.

Una porticina minuta minuta, ma bella,
una serratura con la chiave,
vorrei provare ad aprirlo,
ma come faccio a osare?

Ecco si apre,
è illuminato,
lo vedo ancora più misterioso,
ma affascinante.

Di nuovo si richiude
la mia immaginazione comincia a fantasticare
nel mistero della fede.

Il tabernacolo della chiesa di S.Rocco mi fa affiorare nella mente il periodo in cui, anch’io, come quasi tutti i giovani del paese, facevo il chierichetto. Attraverso quella porticina, che non ho mai potuto aprire, vedevo racchiuso il mistero che si compiva nella celebrazione delle liturgie. Un segreto che doveva restare tale e che solamente il celebrante conosceva. Il tabernacolo della chiesa di Albaredo mi è sempre sembrato il più bello, la cosa più preziosa che la comunità possedeva e che solamente per pochi istanti doveva aprirsi, illuminarsi, per poi richiudersi.

L’EX VOTO

Fece fare per sua devozione,
le tribolazioni di un lontano passato,
al credo e all’amore dei propri cari,
in terre lontane, oltre i mari.

Il ritorno,
la testimonianza della fede,
una storia triste
un mondo d’amore.

La forza di un pennello,
quanto ci resta per memoria.

Disegnati sulle pareti delle baite o delle case ancor oggi si possono ammirare dipinti religiosi che un’abile mano ha voluto lasciare su commissione per ringraziare Dio o qualche Santo per grazie ricevuto.
Lungo la Via S.Marco ad Albaredo poco prima del Municipio vi è un ex voto che testimonia l’emigrazione locale in quel di Livorno. Esso raffigura Santa Caterina e San Domenico con al centro la Madonna di Montenero con alla base la scritta fece fare per la sua devozione l’anno 1831. Gli ex voto oltre a trasmetterci una grande fede, storie di tribolazioni e di speranza, solo la storia di tante persone umili che in qualcosa di profondo credevano.

SANTELLA

Il sudore lungo la schiena
salgo la vecchia Via,
penso a mio padre
è estate e si fatica.

L’odore del fieno
i profumi del bosco
si confondono e si uniscono,
il coro stridulo dei grilli.

Calpesto la terra
dei tanti che sono passati,
rifletto alla vista della santella,
penso, perché proprio li?

Tante preghiere si sono levate,
ciascuno nella propria intimità,
uomini e donne ricurvi
alzano lo sguardo.

Tu sei li immobile,
osservi,
chissà se ascolti,
perché proprio li?

Sulla Via della storia,
sulla strada del lavoro,
delle stagioni che passano,
della speranza.

Rifletto, perché proprio li?
Riprendo a camminare,
nuovamente mi giro a guardare
ora capisco perché si trovi proprio lì.

(nota a: santella)

La santella della Viaga dopo l’abitato di Albaredo lungo la Via Priula da noi di Albaredo chiamata “ul gigeul dè la Viaga” ha una storia particolare. E’ lì ubicata per proteggere i contadini e i viandanti dalle streghe e dai malefici. Sopra la santella in esposizione vi è un masso, che si dice sia appiccicato con un pezzo di burro e cadrà sul viandante che passando non si ferma a recitare una preghiera. li luogo su cui sorge, sopra un dirupo e nelle vicinanze di una valletta in mezzo al bosco, è il più adatto per suggestionare chiunque di notte, ma anche di giorno. La santella vigila dalla fine del 1600 quanti obbligatoriamente dovevano passare e passano in quel luogo per recarsi sui maggenghi e per la storica Via Priula che i veneziani costruirono alla fine del 1500. Negli abitanti di Albaredo vi è però una sincera devozione. Recentemente, dopo il restauro a cura degli Alpini locali, è tornata allo splendore di un tempo. Non so però quanti recitino ancora la preghiera.

LA ROMICE

La zangola ha finito di sbuffare,
la prelibata e bianca panna
magicamente si è trasformata.

La donna con le rughe
i capelli grigi avvolti nel “panèt”
asciuga dalla fronte il sudore.

La primavera lascia il passo all’estate,
poca è la neve rimasta sulle cime,
il canto dell’usignolo accompagna la giornata.

I monti come bastioni possenti
proteggono il lungo e paziente
cammino della vita.

L’odore caldo proveniente dalla stalla
si confonde con quello emanato
dal fieno del prato verde e delle piante di sorbo.

La nonna con il grembiule nero,
gli zoccoli di legno di frassino,
stacca con la mano la foglia di romice.

Il secchio di rame
la fresca acqua della sorgente
bagna la foglia appena raccolta.

Meticolosa la donna avvolge il burro
che pochi istanti prima
aveva lasciato il latte e la zangola.

Di quella larga foglia,
brutta e un po’ maltrattata
ne ho capito già a pochi anni di vita la preziosità.

Per la donna con le rughe
la giornata continua.
Tutto serve a qualcosa.

Ho voluto ricordare in questa storia la mia nonna Romilda sul maggengo di Baitridana. Con questo il ricordo si estende a tutte le nonne delle mie montagne. La prima volta che mi è capitato di assistere alla lavorazione del latte e alla trasformazione in burro avevo poco più di sei anni. Ho sempre avuto l’impressione che questa lavorazione assomigliasse un pò a un rito che doveva compiersi senza sbagliare, poiché ne andavano di mezzo le fatiche di una dura attività. L’utilizzo della romice, da noi chiamata “lavazza”, che protegge il bene prezioso ricavato con la panna nella zagola, testimonia la grande capacità di adattamento dell’uomo a questi luoghi montani e l’utilizzo di tutto ciò che la terra dava, proprio per questo era profondamente rispettata anche perchè ne era l’unica fonte di sostentamento.
La romice oggi è ritenuta un’erba infestante che cresce attorno alle baite o ai “calecc” degli alpeggi. Fino a qualche anno fa serviva, una volta bagnata con l’acqua fresca, per avvolgere il burro.

LA VECCHIA DELLA VIA DEL NERO

Ricurva per i troppi anni
che dice di portare sulle spalle,
china per raccogliere il pezzo di legna
per il focolare dell’umida cucina.

Il catino di latta
per i panni al lavatoio,
scarpe di pezza
per il riposo dei piedi con i calli.

Povera e umile
quanto piena di umanità,
la carezza sincera
della mano ruvida per il lavoro.

il vaso di miele e quello con lo strutto,
il sostegno del fratello prete,
quattro righe lette e rilette,
il pensiero e l’augurio di buona salute.

Una credenza quasi vuota
un sorriso e la serenità,
il volto con nel lobo l’unico tesoro,
tutto d ‘oro, in eredità dal passato.

La fede in Dio,
una semplicità autentica,
la vecchia che abitava in Via Del Nero.

(nota a: la vecchia della via del nero)

Non ricordo quanti anni avevo, sicuramente non più di sei o sette, quando un pomeriggio l’anziana signora chiamata “pedula” dalle calzature di lana rinforzata che portava ai piedi, mi invitò amorevolmente tenendomi per mano a entrare in casa sua, In quella donna ho potuto riconoscere tante situazioni di anziani soli che vivono dell’essenziale, ma che nell’umiltà e nella povertà mantengono una dignità a volte non sempre comprensibile e un grande senso di libertà e di pace.
Questa donna abitava nella casa con un camino, una vecchia stufa, un piccolo tavolo e due sedie con una misera credenza quasi vuota, con una lucina che filtrava dalla finestra, ma buia per le pareti annerite dal fumo e l’abito nero della donna che la faceva diventare quasi un ombra. Le parole pronunciate a bassa voce, lentamente, forse per non disturbare la quiete riusciva a dare una sensazione di serenità che, difficilmente in altri sono riuscito a vedere.
L’orgoglio e la serenità di chi è in pace con se stesso e con gli altri senza bisogno di altro. Una grande lezione di vita.

LA FESTA DI SAN ROCCO

La più bella piazza del Paese,
una terrazza sulla Valle,
le montagne verdeggianti la sovrastano.

Il suono delle campane al primo mattino,
l’andirivieni della gente
il portone della chiesa si spalanca,
s’odono i canti prima della processione.

Il santo patrono,
sulle spalle viene portato,
i compaesani emigrati dall’America l’anno donato.

Le campane festose
accompagnano il rito suggestivo
dal sagrato alla piazza, alla volta,
ogni anno il sedici di agosto.

Un santo venerato dai valligiani
del bel borgo natio,
pregano ancora
per “preservare da peste ed epidemie”.
La piazza è tutta colorata,
i bimbi sono infesta,
la gente anima i bei luoghi
la cuccagna pare tocchi il cielo.

La fune è stesa,
nell’attesa della presa di muscoli vigorosi,
il buon profumo della polenta,
s’odono antiche canzoni dialettali.

La festa inizia,
un gran brulichio,
molta gente s’incontra
una volta all’anno sulla piazza.

E’ festa ed è gran svago,
il sudore del tiro alla fune,
l’impossibile scalata della cuccagna,
un gran fragore di sostegno.

Le stelle in cielo
accompagnano il ballo,
il campanile splende più del solito,
la luna sbircia attraverso le campane illuminate.

La festa di San Rocco
il patrono di Albaredo.

La statua di San Rocco fu donata all’inizio del ‘900 dagli emigranti di Albaredo in California. Ogni anno da allora la solennità deI 16 di agosto acquista maggior senso di religiosità e di festa per gli abitanti.
Un santo che viene da lontano e ricorda situazioni di drammaticità negli anni bui della peste di cui non sono state immuni nemmeno le nostre vallate.
Un manoscritto datato 24 agosto 1902 ci descrive come la comunità di Albaredo acquisì la statua e celebrò la prima festa.. .”il 24 di agosto deI 1902 la fabriceria si recò a Cercino per vedere una statua di un santo che fatta e acquistato l’anno scorso), avendo scritto gli americani benefattori di California (emigranti di Albaredo n.d.r.) di voler far fare la statua del santo protettore S.Rocco, così come hanno fatto i loro progenitori con la statua della Madonna di Montenero nel 1794, e hanno incaricato la fabricena di provvedere. Di però far sapere l’ammontare della spesa che essi manderanno la valuta, ed ora si fa le pratiche e bene sarebbe che si formasse la società come fecero i nostri progenitori di Livorno il 21 marzo 1903 siamo andati tutti i fabriceri a Milano a ordinare la statua …. si andò a trovare il fabbricante di statue che si combinò il tutto e per la fine di luglio del corrente anno deve consignarla in paese … il 15 agosto si dovette andare a Morbegno a prendere il trono di S.Rocco ch’era giunto da Milano, e si fu assai contenti della bella opera e della statua che da tutti fu lodata ed il 16 si celebrò la grande festa con la banda e molto concorso di forestieri e tre preti….

LA MIA FINESTRA

Una piccola camera
un letto e tanti libri, una finestra sul mondo,
le persiane non contengono la luce del giorno.

Si apre,
tendine premurosamente predisposte
da una mano gentile.

L ‘orizzonte,
il cielo azzurro terso
la scia di un aereo.

Il profilo delle montagne,
rocce imbiancate nello spazio più lontano,
il cinguettio di una cinciallegra.

Il richiamo di una madre
la voce di un fanciullo,
il rintocco melodioso delle campane.

Riposo e sogno
l’aria frizzante mi desta,
la finestra dei miei 18 anni.

Al mio fantasticare
il mondo si schiude,
tutto si rasserena.

La finestra è sempre lì,
ora è di mio fratello,
chissà se si apre così anche per lui.

(Dove non indicato le sopracitate poesie sono interamente protette dai diritti d’autore di Del Nero Patrizio)

MONTI

Uggiosi,
tristi e maestosi,
splendidi e nascosti tra il sole.

Irti,
confusi con il cielo,
avvolti tra le nuvole.

Immobili,
tagliati dal vento,
spolverati dalla fiocca.

Silenziosi,
come ombre,
la sera.

Parlati,
sotto il firmamento,
nello spegnersi dell’ultima stella.

Saggi,
attorno al camino,
racconta il vecchio.

Immortali.

E’ questa la rappresentazione che ho sempre avuto della maestosità e della suggestione dei monti della mia vallata. Una catena di montagne che disegnano il paesaggio e lo proteggono, piene di leggende, raccontate dai miei nonni attorno al camino nelle baite sui maggenghi o semplicemente nelle case a trascorrere il lungo inverno. Le montagne come i vecchi che nella consuetudine dei paesi orobici sono anche i saggi, molte volte inascoltati, della comunità.

SENTIERO

Un filo con il gomitolo,
lungo la Valle sale,
un vecchio ricurvo,
i ricordi di un tempo.

La rugiada inumidisce i gambali,
la brezza del mattino,
l’odore acre della terra,
il sapore del micelio.

Un cinguettio,
lo spezzarsi di un ramo,
la formica premurosa e instancabile,
l’invito di una pagliuzza che fa capolino.

S’odono al monte i campanacci,
il richiamo antico del pastore,
sudore che si perde nella fresca acqua,
al guado del ruscello.

Salgo,
felice di camminare,
m ‘accorgo che non sono solo.
Sentiero.

Pagina aggiornata il 23/05/2023