Saliamo con l’automobile ad Albaredo e, per guadagnare quota, proseguiamo lungo la strada per il passo di S. Marco fino ad incontrare sulla destra, dopo un secco tornante sinistrorso, la deviazione segnalata per il ristoro Via dei Monti, la Madonna delle Grazie ed il Dosso Chierico. Imboccata questa deviazione, percorriamo una carrozzabile sterrata che ci porta alla graziosa chiesetta della Madonna delle Grazie (m. 1157), alla quale potremmo giungere anche a piedi da Albaredo, in tre quarti d’ora circa, seguendo l’antico tracciato della via Priula (ne troviamo indicata la partenza, a sinistra della strada, appena oltre il ristorante “El Cumpanadech”, quasi all’uscita di Albaredo verso il passo di S. Marco). Subito dopo la chiesetta si trova un parcheggio al quale possiamo lasciare l’automobile. Scendiamo, poi, con qualche tornante, seguendo l’elegante tracciato della via Priula, arteria di fondamentale importanza voluta dalla Repubblica di Venezia per collegare la Valtellina alla bergamasca (il suo nome deriva dal podestà di Bergamo Alvise Priuli, che ne volle e ne curò, dal 1592, la realizzazione), fino ad un primo ponte, che attraversa il torrente della valle Piazza, per poi raggiungere un secondo ponte (m. 1112), sopra il torrente della valle di Lago (nella quale confluisce, poco sopra, la val Pedena). Ignorata, prima del ponte, la deviazione sulla sinistra, segnalata da un cartello blu, per il Sentiero dei Misteri, proseguiamo seguendo le indicazioni relative alla Via Priula (cartello color arancio).
La pista carrozzabile ricomincia a salire e, dopo un paio di tornanti, raggiungiamo le baite del Dosso Chierico (m. 1166), la fascia di prati che si stendono sulla parte settentrionale del Dosso della Motta, il lungo e boscoso dosso che divide, le valli Lago e Pedena, ad est, dal solco principale della Valle del Bitto di Albaredo, ad ovest. La denominazione Dosso Chierico deriva da un riferimento ad un chierico (“clericus”), oppure, nella variante Cerico, anch’essa riportata, al significato di “radura”, “luogo aperto”. Dalla chiesetta della Madonna delle Grazie fino a qui abbiamo incontrato tre pannelli che segnalano altrettanti luoghi significativi dell’Ecomuseo della Valle del Bitto di Albaredo, in quanto illustrano aspetti importanti della civiltà contadina che è ormai al suo profondo crepuscolo, vale a dire la segheria, la carbonaia (catasta per la produzione del carbone dalla lenta combustione della legna) ed il casello del latte. L’intera traversata ci permetterà di visitare altri luoghi nei quali la civiltà contadina mostra i suoi segni vivi. Il Dosso Chierico, con i suoi due nuclei di baite, è davvero ameno e panoramico, ma non possiamo indugiarvi troppo, perché il cammino è ancora lungo. Poco prima che la via Priula si immerga nel bosco, lasciando le ultime baite del dosso, troviamo, sulla destra, una deviazione, segnalata da diversi cartelli, che indicano, nella sua direzione, sul sentiero 135 l’abete di Vesenda (un’ora e 15 minuti), Vesenda Bassa (un’ora e 30 minuti) e Vesenda Alta (2 ore e 10 minuti), sul sentiero 134 la casera di Garzino (un’ora e 10 minuti) e la casera Melzi con alberi monumentali (un’ora e 30 minuti); un terzo cartello segnala che, rimanendo sulla più larga via Priula, in 2 ore e 30 minuti raggiungiamo il passo di San marco (sentiero 110).
Prendiamo, dunque, a destra, lasciando la via Priula. Superata una baita sulla nostra destra, cominciamo una graduale discesa, su una larga mulattiera, che ci porta ad un secondo bivio, a quota 1119. Anche qui alcuni cartelli del Parco delle Orobie Valtellinesi ci illuminano sul da farsi, segnalando che la mulattiera fin qui percorsa è il sentiero 135 (proseguendo sul quale si raggiungono l’abete di Vesenda in 55 minuti, Vesenda bassa in un’ora e 20 minuti e Vesenda alta in un’ora e 50 minuti), mentre la deviazione sulla destra è il sentiero 134 (percorrendo il quale ci si porta in un’ora e 20 minuti alla casera Melzi ed in 2 ore e 10 minuti all’alpe Vesenda alta). Entrambe le vie ci consentono di effettuare la traversata a Bema, ma la prima è sensibilmente più lunga, per cui raccontiamo innanzitutto la seconda. Scendiamo, quindi, accompagnati da qualche segnavia bianco–rosso, sul sentiero che si stacca dalla mulattiera sulla destra fino al fondo del ramo principale della Valle del Bitto di Albaredo (m. 1081), dove troviamo un ponte in ferro che ha sostituito un fatiscente ponte in legno e che scavalca il ramo di Albaredo del torrente Bitto, portandoci dal territorio del comune di Albaredo a quello del comune di Bema. Sul lato opposto troviamo, sulla destra, una piazzola, al termine della quale il sentiero riprende, tagliando, per un lungo tratto, in direzione nord–nord–ovest, il fianco occidentale della Valle del Bitto di Albaredo. Alla nostra destra lo scroscio del torrente si fa via via più debole, perché mentre questo prosegue nella discesa della valle, noi conserviamo sostanzialmente la nostra quota, procedendo all’ombra di una fresca pecceta.
Un selvaggio vallone, con una cascatella poco a monte del sentiero, si frappone al nostro cammino (si tratta della parte inferiore della valle Reggio), ma un ponticello in legno lo scavalca (m. 1071). Poco oltre, il sentiero si allarga, torna a farsi comoda mulattiera e si porta nei pressi di una seconda vallecola, ma, invece di scavalcarla, inverte il suo andamento, scartando verso sinistra: ora punta ad ovest–sud–ovest, risalendo, con una serrata serie di tornantini, un largo dosso, sempre nella splendida cornice del bosco di abeti, impreziosito da gustosi mirtilli. L’importanza di questa arteria, che collegata Albaredo agli alpeggi di mezza costa del versante orientale del Dosso di Bema, è testimoniata dalla cura con cui è stata tracciata: troviamo, infatti, anche muretti a secco che la sostengono nei punti a maggior rischio di smottamento. Oggi essa propone solo il mobile gioco chiaroscurale del contrappunto e del fitto dialogo fra le fronde ed i raggi del sole, mentre un tempo era testimone dei moti diversi della vita umana, percorsa da pastori e mandrie nel ritmo alterno della salita e della discesa da quei pascoli che costituivano il tesoro più importante della civiltà contadina.
Terminata, a quota 1190, la serrata serie di tornantini, inizia una traversata verso destra (direzione nord–ovest); a quota 1250 la mulattiera piega di nuovo a sinistra (direzione sud–ovest), e ripropone una serie di tornanti, che ci portano sul limite inferiore dei prati della casera Melzi (o alpe Garzino), in corrispondeza di un calecc con segnavia bianco–rosso (se torniamo per la medesima via di salita, memorizziamo bene questo punto). Risaliti i prati, raggiungiamo, in breve, la casera Melzi, a quota 1467. La casera è raggiunta da una pista carozzabile che proviene dalla località Ronchi, a monte di Bema, e che ci consentirà di chiudere in tutta tranquillità l’anello. Alcuni cartelli, sul ciglio della pista appena prima della casera, segnalano, infatti, che la pista conduce a Prato Martino in 45 minuti ed alla località Ronchi in un’ora ed un quarto.
Prima di iniziare quest’ultimo tratto della traversata, però non possiamo mancare di visitare il vicino larice monumentale (32 metri di altezza per una circonferenza di 3 metri e 20 centimetri) e di sostare per gustarci l’ottimo panorama che si apre da questa solare alpe e che propone, a nord, in primo piano la Costiera dei Cech e, alla sua destra, alcune cime del gruppo del Masino, dal pizzo Badile alla cima di Rasica, passando per il pizzo Cengalo, i pizzi del Ferro e la cima di Castello. Più a destra, si mostra, in tutto il suo splendore, il fianco orientale della Valle del Bitto di Albaredo, con la sua armonica tessitura di fitti boschi e solari alpeggi, coronati dalle cime del monte Lago (m. 2353), del monte Pedena (m. 2399), del monte Azzarini (m. 2431) e dal pizzo delle Segade (m. 2173), che precede il passo di San Marco (m. 1992). Possiamo, ora, incamminarci alla volta di Bema: la pista sterrata, oltrepassata una valle, raggiunge i prati dell’alpe Garzino, dove si trovano il ben visibile Baitone, di quota 1488, e la casera di Garzino, che sta sul limite inferiore dell’alpe (m. 1353). Prosegue, poi, in graduale discesa, toccando la località Pratolungo (m. 1349), dove si trova, sulla destra, una deviazione che consente di scendere alle baite di Prato Martino (m. 1289), Pegolota (m. 1173) e Moia, dove è segnalata una sorgente di acqua ferruginosa.
Alla fine raggiungiamo la località Ronchi, dove, a quota 1170, si trova il rifugio omonimo (per informazioni sui periodi di apertura, telefonare al numero 0342 618000). Poco oltre il rifugio, ci affacciamo alla parte alta dei prati a monte di Bema. Scendiamo, infine, a Bema seguendo la strada asfaltata o la più breve mulattiera che taglia i prati e passa per la grande croce collocata a ricordo del Convegno Eucaristico Diocesano del 1997. Raggiunta Bema (m. 790), la traversata, dopo circa 4 ore e mezza–5 di cammino, si chiude (il dislivello approssimativo in salita è di 500 metri).
Ecco, invece, il racconto della variante più lunga (ma anche più interessante, perché, passando per Vesenda bassa ed alta, ci consente una visita completa agli importanti alpeggi del versante orientale del Dosso di Bema). Torniamo, dunque, al secondo bivio incontrato dopo il Dosso Chierico e, invece di prendere a destra, proseguiamo lungo la mulattiera che, conservando l’andamento sud–sud–est, scende gradualmente in direzione del fondovalle. Usciti dal bosco, incontriamo la quarta tappa dell’Ecomuseo della Valle del Bitto di Albaredo, che illustra funzioni e funzionamento dei forni fusori. Proseguendo, in breve raggiungiamo la riva orientale del torrente Bitto e lo possiamo attraversare sfruttando un ben visibile ponte formato da grandi massi (m. 1251). Sul lato opposto troviamo facilmente il sentiero che sale verso l’alpe di Vesenda bassa.
L’abete non è lontano, e per trovarlo ci affidiamo all’indicazione dei cartelli. Saliamo per un tratto, superando un boschetto di abeti, fino a giungere in vista dei muretti diroccati che segnano il confine dell’alpe, poco sopra i 1350 metri. Ora guardiamo alla nostra destra: vedremo un fitto bosco di abeti, dal quale emerge la solitaria chioma diradata dell’Abete di Vesenda, riconoscibile, appunto, non solo per i suoi rami volti all’insù (caratteristica dell’abete bianco), ma anche per la povertà dei rami nella parte alta del tronco. Per questo il suo profilo spicca nella compagine degli alti abeti del bosco. Avviamoci quindi verso il limite del bosco ed addentriamoci fra gli abeti per un tratto: in breve ci troveremo presso due tavoli in legno, ideali per una sosta ristoratrice. Il grande abete si solleva verso il cielo a pochi metri dai tavoli, vetusto nel suo carico d’anni ma sempre possente nella sua sorprendente mole.
Conserviamo, alla sua presenza, un contegno degno della sua nobiltà, perché l’abete di Vesenda (avèzz de Üusénda, nel dialetto locale) è il più famoso albero della Valtellina, un abete bianco (abies alba) dall’età veneranda (dai 300 ai 350 anni) e dalle dimensioni imponenti (38,50 metri di altezza, 5,65 metri di circonferenza, 1,79 metri di diametro a petto d’uomo, 32,60 metri cubi di volume totale). Dalla parte bassa del tronco, in particolare, parte un grande ramo dalla forma singolare, che ha tutta l’aria di rappresentare una sorta di grande braccio piegato ad angolo retto verso l’alto.
Dopo l’omaggio a questo nobile vegliardo, torniamo sul sentiero per Vesenda bassa, raggiungendo le baite quotate 1457 metri (attenzione, in estate, alla presenza di eventuali cani quando l’alpe viene caricata). Imbocchiamo, quindi, il sentiero che parte alle loro spalle e, salendo verso destra, attraversa un bel bosco, sbucando sul limite inferiore dell’alpe di Vesenda alta (m. 1647). Dalle baite inferiori saliamo, su traccia di sentiero, alla baita posta a 1734 metri. Proseguendo nella salita, ci ritroviamo sulla sommità erbosa di un grande dosso (m. 1851), in una posizione panoramica estremamente suggestiva: da qui possiamo dominare il dosso di Bema, a sinistra, le cime del gruppo Masino–Disgrazia, davanti a noi, il fianco orientale della valle del Bitto di Albaredo ed i passi di Pedena e San Marco, a destra. Il pianoro sul quale ci troviamo può costituire un ottimo punto di sosta: qui possiamo respirare un senso di pace e di apertura di orizzonti che non capita spesso di gustare nelle escursioni alle quote medie.
Un cartello della Comunità Montana di Morbegno ci segnala che alla nostra destra parte il sentiero per la baita di Aguc: lo imbocchiamo e, effettuata una diagonale nel bosco che taglia la valle Reggio (direzione nord–ovest), usciamo di nuovo all’aperto, raggiungendo la singolarissima conca che ospita l’ancor più singolare baita di Aguc (o Agucc), che è un po’ il cuore dell’intero Dosso di Bema (m. 1876). Un cuore congiunto ad un altro cuore: sulla baita la scritta “Bema 11 km” ci segnala la distanza che separa i due cuori pulsanti di questo microcosmo antico che è il comune di Bema. Ora, però, si prospettano due possibilità per raggiungere Bema: scendere ad intercettare la già citata pista che dalla casera Melzi porta ai Ronchi, oppure seguire il filo del Dosso di Bema fino al pizzo Berro (termine che deriva da “bel–ver”, belvedere, oppure da “berr”, montone), e di scendere ai Ronchi.
Vediamo la prima. Presso la baita Aguc un cartello segnala la direzione (nord) nella quale troviamo la partenza di un sentiero (il numero 120) che conduce alla baita Piazzoli e di qui sale sul filo del dosso. Percorriamolo per un tratto, fino a trovare, segnata su un masso, la deviazione, a destra, per l’alpe Melzi–Garzino (scritta in bianco “Garzino”). Lasciamo, quindi, il sentiero 120 scendendo in diagonale verso sinistra lungo un prato (c’è una traccia di sentiero appena accennata), superando un masso con segnavia bianco–rosso e passando a destra del rudere di un calecc.
Raggiunto, così, il limite del bosco, troviamo la partenza, segnalata da un segnavia color arancio, di un marcato sentiero che lo taglia verso sinistra, cioè in direzione nord–nord–est, affacciandosi, dopo un larice sul cui tronco troviamo un cartello color arancio con al scritta “Aguc” (cartello che punta nella direzione dalla quale proveniamo), sul limite di una più ampia fascia di prati. Proseguiamo nella discesa, piegando leggermente a destra (direzione nord–est) superando una vasca in legno per la raccolta dell’acqua, sulla quale si trova ancora la scritta “Aguc”, ed altri ruderi di calecc, fino ad incontrare il rudere di una baita, quotata 1607 metri: anche qui, su un grande sasso, troveremo la scritta “Aguc” (visibile però a chi sale). Scendendo ancora più o meno nella medesima direzione, giungiamo in vista della pista sterrata, della casera di Melzi e del già citato larice monumentale: da qui il ritorno a Bema avviene facilmente come sopra descritto.
La seconda possibilità dalla baita Aguc, lungo il filo del Dosso di Bema, infine. Torniamo alla baita ed incamminiamoci sul sentiero 120, questa volta, però, ignorando la deviazione per Garzino. Con andamento sostanzialmente pianeggiante, il sentiero ci porta alla solitaria baita Piazzoli (m. 1824). Raggiunta la baita, preceduta da una vasca in cemento per la raccolta dell’acqua, pieghiamo decisamente a sinistra e, salendo in diagonale, guadagniamo il crinale del dosso di Bema, in corrispondenza di un’evidente sella erbosa. Molto bello il panorama che già da qui si apre: alla nostra sinistra sfilano le cime della testata e della costiera occidentale della Val Gerola, mentre a destra lo sguardo raggiunge le cime del gruppo del Masino, dal pizzo Badile al monte Disgrazia, ed alcuni dei colossi della testata della Valmalenco. Più a destra ancora, infine, uno spaccato del versante orientale della Valle del Bitto di Albaredo, con in primo piano il passo di Pedena.
Inizia ora l’entusiasmante cavalcata che ci fa rimanere sulla sella del dosso fino alla sua ultima impennata, il pizzo Berro. La traccia di sentiero, segnalata da alcuni segnavia bianco–rossi, è in buona parte tranquilla; in alcuni punti, però, il versante leggermente esposto richiede un po’ di attenzione. Si tratta, dunque, di una cavalcata vera e propria, perché l’andamento della cresta e del sentierino che la segue sembra seguire il ritmo di un cavallo al galoppo, proponendo diversi saliscendi, con tratti all’aperto che si alternano a brevi macchie di larici. Tocchiamo, nella cavalcata, diverse elevazioni (quotate, rispettivamente, 1882, 1882, 1886, 1837 e 1816 metri), seguite da altrettante depressioni o sellette, prima di giungere ai piedi del pizzo Berro (m. 1847), al quale saliamo percorrendo la traccia, seminascosta fra la vegetazione, che propone un ultimo ripido strappo. La croce della cima erbosa del pizzo è il premio dei nostri sforzi. Il panorama dal pizzo è veramente ampio: ad ovest lo sguardo raggiunge le Alpi Lepontine, mentre a nord ovest domina la costiera dei Cech. Sfilano, poi, le più importanti cime del gruppo del Masino, dal pizzo Badile al monte Disgrazia. Mancano all’appello, invece, le cime più alte della Valmalenco, anche se è ben visibile il pizzo Scalino (m. 3323).
Ad est si impongono, sul versante orientale della Valle del Bitto di Albaredo, tre cime: il monte Lago (m. 2353), il monte Pedena (m. 2399) ed Azzarini (m. 2431). Fra questi ultimi due monti si trova l’ampia e facilmente riconoscibile sella del passo di Pedena (m. 2234), che unisce la val Budria (dal termine bergamasco “büder”, che significa “vaso fatto di scorza di abete) alla valle del Bitto di Albaredo: si tratta dell’unica porta fra quest’ultima valle e la Val Tartano. Proseguiamo, quindi, nel giro di orizzonte in senso orario, puntando con lo sguardo a sud–est: riconosceremo facilmente, anche per la presenza dei tralicci che lo valicano, il più famoso passo di san Marco (m. 1992), che congiunge la Valle del Bitto di Albaredo alla Val Brembana, sul versante orobico bergamasco. A sud si domina il lungo crinale che dal pizzo Berro sale fino al pizzo di Val Carnera (m. 2216) ed al monte Verrobbio (m. 2139).
Alla sua destra si può ammirare la testata della Val Gerola, sulla quale è riconoscibile, da sinistra, il monte Ponteranica (m. 2378), alla cui destra si trova il caratteristico spuntone roccioso denominato monte Valletto (m. 2371); seguono il caratteristico uncino del torrione della Mezzaluna (m. 2373), il pizzo di Tronella (m. 2311) ed il più massiccio pizzo di Trona (m. 2510), alla cui destra si vede la bocchetta omonima (m. 2092) alle cui spalle si scorge il pizzo Varrone (m. 2325), con il caratteristico Dente. Rimane, invece, seminascosto proprio dietro il pizzo di Trona il più famoso pizzo dei Tre Signori (m. 2554). Verso ovest, infine, si vedono le cime del versante occidentale della Val Gerola, vale a dire, da sinistra, il pizzo Mellasc (m. 2465), il monte Colombana (m. 2385) ed il monte Rotondo (m. 2496), fra i quali si apre la bocchetta di Stavello (m. 2210), il monte Rosetta (m. 2360), il monte Combana (m. 2327), la cima della Rosetta (m. 2142),il pizzo Olano (m. 2267) ed il pizzo dei Galli (m. 2217).
Si tratta, ora, di scendere: il sentiero parte nei pressi della croce, sulla destra (direzione nord–est), e scende in una splendida pecceta. Dopo una serie di tornantini, incontriamo la sorgente Aser, fontana alla quale possiamo attingere acqua fresca se ne abbiamo bisogno. La successiva discesa sul sentiero principale (ignoriamo una deviazione) ci porta al limite alto dei prati della località Fracino (m. 1520), dove troviamo tre cartelli, che danno, nella direzione dalla quale proveniamo, il pizzo Berro a 50 minuti, nella direzione di destra la Costa a 15 minuti e (indicazione che ci interessa) nella direzione di discesa i Ronchi a 45 minuti. Scendiamo, dunque, lungo i prati, lasciano alla nostra sinistra un’elegante baita. Rientrati nel bosco, ignoriamo una deviazione a destra per prato Martino e Pegolota, e raggiungiamo la località Geai, dove si trova un grande casello dell’acqua, una simpatica fontana ed un tavolino utile per un’eventuale sosta. L’ultimo tratto della discesa ci porta ad intercettare la pista sterrata che taglia il fianco orientale del dosso di Bema.
Percorrendola verso sinistra, raggiungiamo, in breve, il rifugio Ronchi nella località omonima (m. 1170), dal quale, seguendo la strada o tagliando per la più ripida mulattiera, caliamo tranquillamente alle case alte di Bema, passando per la grande croce posta a ricordo del Convegno Eucaristico Diocesano del 1997. Qualche numero, per concludere. La variante più lunga della traversata Albaredo–Bema richiede circa 5 ore e mezza–6 di cammino se dalla baita Aguc scendiamo all’alpe Melzi–Garzino (dislivello approssimativo: 900 metri), 6 ore e mezzo–7 se, invece, percorriamo il filo del Dosso di Bema, passando per il pizzo Berro (dislivello approssimativo: 1000 metri).
Testo e fotografie a cura di Massimo Dei Cas
Pagina aggiornata il 29/06/2023